Il tema delle riforme costituzionali riemerge ciclicamente nel dibattito politico. La necessità di ulteriori riforme dimostra il sostanziale fallimento di tutti gli interventi posti in essere negli ultimi anni. Essi hanno fallito nel dare alla nostra Repubblica un assetto costituzionale più stabile, efficiente e più rispettoso della sovranità popolare. Un’analisi critica non può non partire dal Titolo V della Costituzione e dalle riforme del 2000, che hanno dato al regionalismo italiano la sua attuale forma. Le Regioni avrebbero dovuto avvicinare i cittadini alle istituzioni ed efficientare, alla luce del principio di sussidiarietà, l’azione politica e amministrativa. Nessuno dei due obbiettivi è stato raggiunto, anzi. Chi può negare che oggi la sfiducia dei cittadini verso le istituzioni repubblicane, centrali e periferiche, abbia raggiunto il suo massimo storico?
Come si può invece parlare di efficienza, a fronte della moltiplicazione dei centri di spesa, della duplicazione delle strutture burocratiche, del consolidarsi di costose caste di notabili locali, dediti a servire interessi particolari e frammentati a scapito dell’interesse generale?
Si è molto parlato di abolizione delle province, ma esse sono rimaste. Si è invece abolito, quello sì, il potere dei cittadini di scegliere i propri rappresentanti politici provinciali. Non sono le Province, ma è l’intero impianto del decentramento politico che deve essere ripensato. Le attuali Regioni sono enti artificiali e privi di storia, che riuniscono al loro interno aree territoriali e interessi funzionalmente scollegati. Si è voluto trasformare delle linee, disegnate per ragioni essenzialmente statistiche sulle cartine del fu Regno d’Italia, in centri di potere autonomo. Dobbiamo riconoscere, dopo quattro decenni di sperimentazione, che questi Enti si sono ripetutamente dimostrati inidonei ad assolvere le importanti funzioni a loro demandate. Per di più, essi hanno appesantito e rallentato, tramite continui conflitti, la stessa attività dello Stato centrale.
Le Regioni devono essere soppresse. Province e Comuni sono invece il frutto di un’evoluzione storica durata secoli, e si sono dimostrati ancora utili al paese. Indubbiamente, è necessario ridefinire i territori provinciali e accorpare i piccoli Comuni. Un tale lavoro non può però essere realizzato tramite indici rigidi di territorio e popolazione. E’ necessario piuttosto individuare, realtà per realtà, delle dimensioni ottimali di Governo del territorio, che tengano conto dell’organizzazione delle reti di trasporto, della fornitura dei servizi pubblici, dei flussi lavorativi e commerciali. Segnalo a tal proposito il capillare e rigoroso lavoro di ricerca svolto dalla Società Geografica Italiana, commissionato dal Governo Letta e poi del tutto ignorato dai suoi stessi committenti. Tale proposta delinea uno Stato articolato su non più di 30-36 province, con contestuale soppressione delle regioni. E’ a tale visione che indirizzerò i miei sforzi.
Il confuso progetto di trasformazione del Senato mi lascia invece perplesso. Se l’obbiettivo principale è davvero quello di abbattere i costi del parlamento, comunque infinitesimali rispetto al bilancio dello Stato, pare logico agire sui numeri. Al contrario, la trasformazione di una camera di eletti in una camera di nominati risponde a una logica ben diversa da quella di ridurne i costi. Sono favorevole al bicameralismo, anche e soprattutto se imperfetto, ma il Senato non può e non deve ridursi a un’inutile comparsa.
Sono convinto che il parlamento sia oggi inefficiente. Gli strumenti per superare tali inefficienze esistono già, e sono i regolamenti parlamentari. Basterebbe la volonta politica di modificarli per rendere più celere l’iter legislativo e più proficuo il confronto. Si dovrebbe separare nettamente la fase di discussione da quella di voto e limtare fortemente alcune tempistiche, retaggio di un lontano passato, dove il politico portava ai suoi elettori i resoconti stenografici dei propri interventi e per arrivare a Roma da ogni parte d’Italia poteva servire un giorno intero di viaggio.
Non vi è però una sufficiente volontà in tal senso. Il vero senso della riforma si coglie appieno alla luce della malcelata intenzione di mantenere un sistema elettorale fondato su liste bloccate. La volontà pare quella di ridurre a un’ombra sempre più sbiadita il potere legislativo, alterando la divisione dei poteri. Di rendere il Governo sempre meno dipendente dai rappresentanti del popolo, trasferendo gradualmente i compiti legislativi a funzionari ministeriali. Di cementare il ruolo paternalista del Governo, quale diretto garante del popolo in un artificiale stato di emergenza permanente. Di realizzare, insomma, una riforma dello Stato in senso autoritario e plebiscitario.
Ivan Catalano
Ivan Catalano
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