Buongiorno a tutti.
Pochi giorni fa, ha avuto ampio risalto la notizia di una sentenza della Corte Costituzionale, con cui è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale di alcune previsioni della recente Riforma Madia della PA (legge n. 124 del 2015), in quanto lesive dell'autonomia delle Regioni. Questa vicenda è stata semplicisticamente etichettata, da alcune parti politiche, come un colpo da incassare per il Governo Renzi. Io penso che questa lettura sia miope. Al di là della strumentalizzazione politica immediata, volendo studiare più a fondo la pronuncia della Corte, emergono le gravissime conseguenze imposte al paese da un regionalismo assurdo, che consente a un singolo Governo regionale di bloccare riforme di ampio respiro necessarie all'intero paese.
Premetto subito che la decisione della Corte non deve essere criticata: correttamente il giudice costituzionale ha giudicato sulla base della Costituzione vigente. Se poi l'ordinamento costituzionale evidenzia gravi problemi di funzionamento, spetta al legislatore intervenire per modificarlo, salvo ovviamente il rispetto dei principi supremi della nostra Repubblica. Come in effetti, oggi, ha fatto.
Andiamo però ora al dettaglio della sentenza n. 251/2016. Con tale pronuncia, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di diverse disposizioni contenute negli articoli 11 e nel combinato disposto dell’art. 16, commi 1 e 4, e, rispettivamente, degli articoli 17, 18 e 19 della Legge Madia. L'articolo 11 delega il Governo ad adottare decreti legislativi in materia di dirigenza pubblica e di valutazione dei rendimenti degli uffici pubblici, fissando i relativi principi e criteri direttivi. Il successivo articolo 16 prevede l’elaborazione di distinti testi unici diretti alla semplificazione dei settori del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, delle partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche, nonché dei servizi pubblici di interesse economico generale, dettando ai successivi articoli 17, 18 e 19 i relativi criteri direttivi. La Corte ha ritenuto che tali disposizioni siano illegittime nella parte in cui prevedono che il Governo adotti i decreti legislativi attuativi previo parere, anziché previa intesa, in sede di Conferenza unificata.
In riferimento a tutte le materie sopra indicate, la Corte ritiene che sussistano delle competenze regionali, in concorso con competenze statali. In particolare, le disposizioni dell'art. 11 sono in parte riconducibili alla competenza regionale residuale in materia di ordinamento e organizzazione amministrativa regionale, entro cui si collocano le procedure concorsuali pubblicistiche per l’accesso al ruolo (così come a tutto il pubblico impiego: sentenze n. 310 del 2011 e n. 324 del 2010), il conferimento degli incarichi (sentenza n. 105 del 2013) e la durata degli stessi, nonché alla competenza residuale regionale in materia di formazione e a quella concorrente in materia di tutela della salute, con riguardo alla disciplina di dettaglio della dirigenza regionale.
Le disposizioni degli artt. 17 e 18, in combinato disposto con l'art. 16, co. 1 e 4, vanno ugualmente a interferire con la competenza regionale residuale in materia di organizzazione amministrativa delle Regioni e degli enti pubblici regionali, in specie quando intervengono a dettare precisi criteri inerenti alle procedure concorsuali pubblicistiche per l’accesso al lavoro pubblico regionale, ripetutamente ricondotto dalla Corte Costituzionale alla competenza residuale delle Regioni di cui all’art. 117, quarto comma, Cost. (sentenze n. 100 del 2010, n. 95 del 2008, n. 233 del 2006 e n. 380 del 2004).
Infine, le disposizioni dell'art.19, sempre in combinato con l'art. 16, co. 1 e 4, trascendono la competenza statale in materia di concorrenza andando a toccare profili ulteriori di gestione e organizzazione dei servizi pubblici di interesse economico generale, di competenza residuale regionale.
Dato che comunque, in tutte le disposizioni di cui sopra, la Corte ha riconosciuto la presenza di rilevanti competenze statali, essa ha ritenuto che la situazione sia quella di un "concorso di competenze, inestricabilmente connesse, nessuna delle quali si rivela prevalente, ma ciascuna delle quali concorre alla realizzazione dell’ampio disegno di riforma (...) Pertanto, non è costituzionalmente illegittimo l’intervento del legislatore statale, se necessario a garantire l’esigenza di unitarietà sottesa alla riforma. Tuttavia, esso deve muoversi nel rispetto del principio di leale collaborazione, indispensabile anche in questo caso a guidare i rapporti tra lo Stato e il sistema delle autonomie (ex plurimis, sentenze n. 26 e n. 1 del 2016, n. 140 del 2015, n. 44 del 2014, n. 237 del 2009, n. 168 e n. 50 del 2008). Poiché le disposizioni impugnate toccano sfere di competenza esclusivamente statali e regionali, il luogo idoneo di espressione della leale collaborazione deve essere individuato nella Conferenza Stato-Regioni". Il metodo di espressione di tale leale collaborazione deve essere quello concertativo, al fine di consentire un confronto autentico tra lo Stato e le autonomie regionali, confronto necessario a contemperare la compressione delle competenze di queste ultime. In assenza di un tale confronto, non essendo sufficiente a consentirlo la mera previsione di un parere della Conferenza Stato-Regioni, il legislatore ha quindi violato il principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 Cost.
Non possiamo sapere con certezza quale sarebbe stato l'esito di tale giudizio se fosse già in vigore la Riforma costituzionale, ma alcune considerazioni sono comunque possibili. Infatti, la Riforma riporta a livello nazionale tutta una serie di competenze che, a seguito della sciagurata Riforma del Titolo V, sono state anni fa frammentate tra le regioni. Questa frammentazione ha aumentato il divario all'interno del paese, impedendo di gestire unitariamente alcune grandi questioni, fra le quali i trasporti, la politica energetica e, per quanto qui viene in rilievo, il riordino e la digitalizzazione della PA. Si tratta di questioni che una singola Regione non è assolutamente in grado di risolvere. Alcuni dei problemi connessi, anzi, sono forse così grandi che lo stesso Stato nazionale pare troppo piccolo per riuscire a gestirli.
Con la riforma, prima di tutto, tornano di competenza nazionale le "norme sul procedimento
amministrativo e sulla disciplina
giuridica del lavoro alle dipendenze
delle amministrazioni pubbliche tese
ad assicurarne l’uniformità sul territorio
nazionale", come previsto dalla nuova lettera g) dell'articolo 117 Cost.. Avrebbero inoltre potuto rilevare, a giustificazione dell'intervento legislativo, anche le nuove competenze statali di cui alla lettera m), per quanto riguarda la materia della "salute" rispetto alle disposizioni dell'art. 11, della Legge Madia. Allo stesso modo, nel senso di un maggiore intervento statale va la modifica della lettera o) dell'art. 117 Cost., dandogli maggior legittimazione in materia di "formazione", toccata dalle disposizioni dell'art. 11 della Legge Madia e di "lavoro" toccato dalle disposizioni dell'art. 17 della Legge Madia.
L'esito sarebbe in parte dipeso anche dall'esatta estensione da darsi a queste nuove competenze, che dipende da fattori anche politici, non solo giuridici. Però una cosa certa è che l'equilibrio, rispetto a tutte le competenze in gioco, si sposta con il Sì verso lo Stato. Anche perché il Governo potrebbe espressamente invocare in sede di legislazione la clausola del nuovo art. 117 secondo la quale "Su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale".
Penso che l'Italia non possa tollerare oltre di avere 21 pubbliche amministrazioni che agiscono, in materie fondamentali come quelle toccate dalla Legge Madia, in modo diverso se non opposto. Anche per questo, il 4 dicembre voterò sì.
Ivan Catalano
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